Benita Matofska ne sa di molto di quello che “the people who share” ed afferma: “The Sharing Economy is a socio-economic ecosystem built around the sharing of human, physical and intellectual resources. It includes the shared creation, production, distribution, trade and consumption of goods and services by different people and organisations”.
Possiamo sostenere che la sharing economy (o anche economia collaborativa)è un’economia mista che tende a superare il tradizionale sistema di scambio come quello che conosciamo ancora, cioè prestazione in cambio di denaro, invece questa nuova economia vede un beneficio in una varietà più sfumata di forme di scambio, riscoprendo forse leggi antiche che li pone come “processi di creazione del valore” nuovi.
La sharing economy pone in discussione il concetto stesso di proprietà, non escludendo quella intellettuale, quella professionale. Forse un adeguamento al basso.
Una nuova accezione di valore commerciale, non solo materiale e/o finanziario, ma anche e forse declinato come immateriale, ad esempio sociale ed ambientale.
Per cui la crisi economica dei ceti medi, o forse la maggiore attenzione ambientalista a non sprecare ciò che si possiede, sta di fatto che questo concetto di l’economia di condivisione incoraggia a condividere appunto e ad usare le risorse in modo intelligente e senza sprechi.
Ognuno può approfondire il significato economico e sociale informandosi su due noti esempi: Uber e Airbnb.
Questo sistema di consumare “eticamente” spinge le persone ad impegnarsi in attività produttive tradizionalmente di competenza delle imprese o di professionisti.
Per cui, io possessore di fotocamera perchè dovrei rivolgermi ad un professionista della fotografia ? Faccio da me, e creo una nuova figura di fotografo con conseguente nuovo linguaggio e do adito ad un immaginario collettivo che si adegua a nuovi schemi logici, a nuove letture a nuovi segni fotografici; ecco dunque apparire foto ritratti di ragazze esangui colte all’imbrunire in boschi con pozze d’acqua e con faccine bianche e lentigginose. Per chi segue i social sarà semplice cogliere le nuove tendenze artistiche su come “fotografi who share” espletano la “sharing photography”.
E come tutti i processi di new economy anche la sharing photography crea nuovi orizzonti, nuovi mercati e nuovi soggetti che producono, consumano e si adattano al ciclo futuro di questa “arte economica di risparmio globale” adeguando richieste e compensi alle loro prestazioni, sia come sharing photography che come sharing soggetti, o sharing modelle, e financo sharing aziende e chi più ne ha più ne inserisca.
Dunque “the people who sharing” distribuiscono e ridistribuiscono le risorse con un sistema efficiente e “low price” su scala globale, ma anche ovviamente a livelli locali o nazionali.
Il concetto è che il pianeta è al centro del sistema economico e la creazione di valore avviene con le risorse ambientali disponibili, cioè con quello che c’è o quello che hai (la qualità dei prodotti o servizi è cosa da poco).
Condividere i beni allocati e disponibili tra i tra cittadini, le popolazioni è lo scopo ultimo, ridistribuendo economicamente il potere di processi decisionali, con un nuovo sistema democratico che incoraggi la partecipazione di massa creando una nuova cultura di prodotto/servizio condiviso, sostenibile e orientata al futuro.
Sciaguratamente non solo il mondo della fotografia segue questa crisi di tendenza, ma tante altre professioni, ne cito una per molte: il giornalismo. Leggere per credere. E’ ormai da tempo, specialmente su testate online, che chiunque sappia individuare le lettere sulla tastiera viene promosso divulgatore per cui legittimato a dire qualsiasi cosa gli passi momentaneamente per il capo, da ciò avrete notato che abbiamo vagonate di opinionisti di ogni specie ed in ogni settore dello scibile umano. Cosa non si fa per riempire spazi vuoti a basso costo.
Parafrasando il concetto e dunque adattandolo al settore fotografico, la “sharing photography” incentiva i cittadini-consumatori divenuto il fotografo-fotografato, non più tanto a possedere beni nuovi, quanto piuttosto ad ottimizzare e condividere quelli già posseduti e usufruire in tal modo, in un’ottica di sostenibilità e convenienza reciproca, di quelli altrui, come ad esempio la “competenza”.
I filosofi ottimisti affermano che l’innovazione non è mai di per sé deleteria ed anche il vecchio, se si rinnova e non si adagia sul passato, può starne al passo e trarne importanti benefici.
Concetto che io condivido pienamente e sostengo a spada tratta, a patto che questa innovazione, vada verso un reale progresso e uno sviluppo eticamente sostenibile, non vorrei proprio tornare ai tempi del baratto e della peste nera.